Meditando i versi di Vincenzo Calò “C’è da
giurare che siamo veri ...”, ho percepito immediatamente un’atmosfera di
illusioni, delusioni, sofferenze, precarietà dell’esistenza con una voglia di
liberarsi e liberare gli altri da queste condizioni destabilizzanti. Già il
titolo e i versi decantati nella copertina del libro comportano una sosta dando
adito a riflessioni di non poco conto: «Pensare è un dolore / a cui non posso
credere. / Segno la mia persona / rivolta ai processi dove / non v’è legge che
ti soccorra / ma riserve assolutamente incontestabili». È un’animo inquieto e non certo poeta
dell’equilibrio e del giusto mezzo, al quale forse non interessa giungere, ma
ciò che è assolutamente incontestabile è il poeta, l’artista della verità. Mira
a raggungere la verità, ossia l’amore per ciò che un uomo è e non vorrebbe
diventare assumendo maschere e recitando parti di un attore solo per apparire,
“per farsi manipolare in finti corsi di recupero”. I versi di Vincenzo Calò
quantomai realistici invitano a riflettere anche sul tema del dolore al quale
ognuno vorrebbe sottrarsi, ma che puntualmente arriva e se “tu” non sei
consapevole e capace di affrontarlo, ti devasta. Il dolore, tuttavia, la
sofferenza aiutano a migliorare la propria identità, a renderci veri, a non
lasciarci condizionare. Al contrario del titolo, ironico e pungente, “C’è da
giurare che siamo veri ...” come nell’intera silloge in cui appare una sottile
venatura di ironia e sarcasmo comprenetrante con i comportamenti menzogneri
dell’individuo contemporaneo. È
complesso essere veri oggi, nella società consumistica, dell’apparire, del
potere: ognuno di noi infatti spesso crede di essere vero, lo giura, ma finge
alle volte coscienziosamente, altre no pur di omologarsi, di sentirsi parte
della modernità. «Lo si fa infatti per stare al centro dell’attenzione se pur
in modo banale». (p. 24). Si legge: «Nasciamo per donarci al di fuori / Per
calcolare una vergogna / Dietro ai caos organizzati / con caratteristiche
fisico-chimiche intorbidite / ... ». (p. 24). “L’immagine che ci siamo creati
ha assunto una Vita propria ...” incisiva ed esaustiva la breve summa che
Vincenzo Calò pone a capo di ogni poesia come l’epilogo di un episodio della
sua, della nostra esistenza. È straordinario notare come il poeta non si ponga
al di fuori di questo assurdo meccanismo ma parla di un “noi”, nell’intera
opera compare un “tu” e un “noi”, facendo chiaramente pensare ad un animo
sensibile, umile, che non osa estromettersi da una realtà che vorrebbe non
farne parte ma che maledettamente ne è parte, esiste e non si erge per
considerarsi migliore in questo mondo fatto di apparenze e maschere. L’uso
della maschera, il gioco delle apparenze, pertanto, sono temi trattati
ampiamente da filosofi moderni quali Simmel, Niezsche, Ortega, e grandi
letterati come Pirandello che nelle sue opere narra la perdita dell’identità,
la spersonalizzazione di se stesso in ogni altro che ognuno vuol vedere. Basti
pensare al grandioso “Uno, nessuno, centomila”. Il reale che si intreccia col
surreale, ciò che è si trasforma in ciò che non è: «Nell’ingenuità dell’amore /
Fatti guidare dalla scoperta di un legame / Il consulente al tuo fianco / ...
». (p. 26) e ancora «Ti senti il più
forte del mondo / E tieni conto di nessuna stima /Tra l’igiene del tuo badante
/ E il grado d’onestà dei datori di lavoro / Dando appuntamento al video-fonino
/ Per ringraziare di persona / Il Sole che si leva sulla tua libera isola». (p.
27). Non si può non citare D’Annunzio per sfuggire al perbenismo della
borghesia, alla sua morale e al consumismo, assume la maschera dell’esteta. La
sua diviene così un’esistenza costruita artificialmente per realizzare l’ideale
del “vivere inimitabile”, per essere diverso, comprendendo poi che la maschera
non lo porta a nulla di buono se non alla menzogna e quindi alla crisi
del’estetismo, mettendo in evidenza la debolezza della persona che non riesce a
realizzare i propri obiettivi. Non vuole essere maestro per nessun individuo -
Vincenzo Calò - anzi forse sembra chiedere a chi maestro lo sia a dare una
soluzione per lui e per la società perchè si riesca a vivere nella verità e non
nella menzogna. «Sull’isola della verità / Sul mio telefonino / Trovo un’occupazione
a tempo vuoto / Le nostre vite a dura prova / Tra gli eccessi di un uomo / Per
risultare innovazione / Sperando di giocare ancora / A correre con un popolo
/... / Per proporsi alla perfezione / Per farsi pubblicità / ... / Passare per
solitudine / Alla scoperta delle origini / Di un’ombra solidificata». Così
prosegue nel percorso esistenziale l’autore sostenendo che ognuno deve fare la
sua parte, perchè molti non trovano la chiave dell’umanità e proseguono a
passaggi. Il nostro sport preferito è farci male da soli. E come dargli torto?
Siamo bravi a farci male da soli. Si individuano negli altri i limiti, gli
errori, pur di rialzare le nostre fragilità, sbagliando. Da questa amara riflessione si avvia alla
conclusione - “C’è da giurare che siamo veri ...” -provvisoria, visto che
l’esistenza è provvisoria e precaria, con uno sguardo del poeta nè ottimistico
nè fiducioso: «Ufficializzato il clima d’insicurezza, incorporiamo una vera e
propria decadenza, soffrendo il rifiuto d’aiutarci, che c’impedisce di vedere
attorno». E a tal proposito tuonano i versi: «Appesi al testo di una canzone /
Come incontenibile ispirazione / Per gli ospiti di una metafora / In forma
extralarge. / Alle nitide immagini / Applichiamo il passato sbaragliato /
Firmato dal dsinteresse / Di paesi fluidici nelle linee editoriali / Come
piccoli e gracili indiani / Con la frusta dei record / Prodotti dall’insieme /
Per spiegare semplicemente la nostra crescita / Tra le perdite di colore / ...
/ ». E con metafore e allegorie la vita
scorre tra maschere e menzogne!
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